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STORIA E CRITICA DELLO STIVALE D’AGOSTO

Estate duemiladieci appena finita. E’ giunta l’ora di tirare le somme e insieme un lungo sospiro di sollievo. Le donne si rivestono e gli uomini possono finalmente rilassarsi e guardare da un’altra parte. O quasi, visto che a pagina sette del Corriere Sport una bionda non identificata mi dimostra come i miracoli dell’eugenetica possano ben accompagnarsi alla campagna acquisti del Cesena.
E mentre Ibrahimovic passa al Milan a pagina cinque, nel foglio accanto un’altra bionda non identificata mi ricorda che lei esiste da qualche parte. Lontana da me mille miglia e mille migliaia di euro, si mostra in bikini nero e stivale con dita dei piedi a vista. Mi fermo sulla calzatura per qualche secondo e mi ricordo di averla già vista da qualche parte. Un minuto più in là ricordo dove: dappertutto, ma fino a qualche estiva settimana fa. Che uno stivale d’agosto ti appaia bizzarro è una possibilità: se sei un mio zio di Cerignola o se la tua esperienza sul mondo si è fermata al 2° album di Toto Cutugno. In caso contrario, indottrinato da sovrabbondanti immagini sociali, hai già metabolizzato da tempo che la moda e il design non si vogliono bene per niente. L’una è istinto (emulativo), l’altra è logica. L’una tende all’effetto sensoriale, l’altra al risultato pratico. Tutto questo almeno nella sua accezione originaria.

E allora perché stupirsi?

Io in primis non faccio altro che rallegrarmi al solo pensiero che le nostre acerrime darkettone metropolitane, spiazzate dalla comparsa fuori stagione della loro calzatura feticcio, dovranno cercare a breve un nuovo totem per dimostrare quanto è brutta la loro vita mentre tutti si divertono al mare. Carissime, è bene che lo sappiate. Avete perso il copywright. Per il resto mi limito solo a ripercorrere la storia dello stivale d’agosto con intento, tempo verbale e tono da menestrello, come sotto:
La comparsa dello stivaletto fuori stagione in suolo italico risale al lontano duemilanove, anno in cui salì al potere Belèn Rodriguez: intelligente e ambiziosa modella argentina che nel 2018 riuscì ad annettere l’impero austro-ungarico alla sua villa di Porto Cervo.
Erano tempi quelli del sandalo e dell’infradito, giunti al successo in diverse gradazioni di cafonaggine a seconda dell’area di villeggiatura frequentata. Anni in cui la gente acquistava iPhone e l’Inter vinceva ripetutamente lo scudetto. Pensate un po’. Ma andiamo avanti.
La vera e propria esplosione del fenomeno avvenne per contagio: l’epidemia si verificò nei mesi caldi della successiva stagione, provocando una moderata rivoluzione di costume e il fiorire in tempo reale di blog e forum che sul web trattavano l’argomento con estrema superficialità. Non si sa ancora cosa accadde nel lontano 2011, ma autorevoli studiosi hanno recentemente confermato che questo non vi interessa e che adesso è decisamente più rilevante passare ad altro. E allora riprendo il presente dall’indicativo e abbandono l’impostazione gutturale da voce narrante.
E adesso? Vogliamo parlare della sua evidente malagevolezza? No, perché neanche questo importa. Soprattutto a me. Non reclamo se una passeggiata per il lungomare di Milano Marittima è più faticosa con un gambale, né tantomeno manifesto in Parlamento per aumenti vertiginosi della sudorazione, quasi fossero iva da pagare per l’acquisto di uno Smartphone. E allora appuro veloce cos’è che invece bisogna sottolineare: la concomitanza di due configurazioni morfologiche antitetiche. L’una chiusa, l’altra aperta. Una calzatura decappottabile? No. Perché l’ambivalenza genetica del cabriolet non è il sintomo di un’ambiguità, ma di un’alternanza: si può sfilare in Corso Buenos Aires o con la cappotte chiusa o con la cappotte aperta. E’ un tempo estetico il suo, rigorosamente diacronico che definisce e separa le due diverse identità dell’autovettura, non consentendo alcun tipo di contaminazione.
A differenza di un “open boot” che optando invece per una sincronia di opposti attributi non può far altro che generare gli effetti indesiderati che lo rendono terrificante per il gusto razionale.
Ancora una volta è massimalismo: lo stesso che avvicina ora (lo dico senza moralismi e con algido costatare) le nostre fanciulle alle migliori attrici porno delle peggiori ville californiane.

C'è roba ancora più inutile in giro. I cortometraggi ad esempio, non servono ad un cazzo.

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